Tutti i giornali hanno raccontato dei pestaggi ad opera di agenti nel carcere minorile Beccaria di Milano. I ragazzi provocano, sono difficili, quali strumenti per arginarli?
Don Gino Rigoldi, per 50 anni cappellano in quel contesto: «Vanno riempite le giornate di questi ragazzi» … «Più tutele per i reclusi. Faccio mea culpa: non mi sono accorto delle violenze», commenta. Non è tipo da raccontare storie! È all’avanguardia - dicono - la legge italiana riguardante i minori autori di reati. Ed è vero. Prevede che ci si debba impegnare nel comprendere le cause del comportamento scorretto, nel recupero e soprattutto nel successivo reinserimento in società. Se lo scopo del carcere è la restituzione alla società di un cittadino migliore, motivato a non delinquere più, che fare?
Certamente il soggetto deve poter incontrare qualcuno in grado di affrontarne le difficoltà, di attivarne le capacità per aiutarlo a rielaborare il passato. In sostanza intravedere una modalità tale da non creare danno a sé e agli altri. Come vengono formati gli operatori del carcere? Sono lì, in pochi, abbandonati a sé stessi, senza nessun strumento professionale? Forse sì. E forse non ci sono anche strutture alternative per riaccogliere i soggetti, per appoggiarne il cammino.
Pensiamo ai minori stranieri non accompagnati, soli. Magari hanno vagato in più stati, sempre allo sbando o sopravvissuti con sotterfugi. Si tratta sempre di persone. Occorrono educatori, operatori e agenti motivati e attenti che a loro volta necessitano di accompagnamento e di costante preparazione per un compito non facile.